lunedì 19 maggio 2008

Teatro - Concerti - Bar Centrale -Cineforum - San Vincenzo

Prato -Metastasio - I Giganti della Montagna
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La sera dopo le sei ci ritrovava in centro. Il ritrovo fisso era davanti o dentro al bar Centrale, al quadrivio del Lux. Se s'era in pochi e in via Cino non c'era movimento ci si rintanava a giocare a flipper nell’antro buio in fondo al corridoio che portava alle stanze sul retro. Ogni partita costava 50 lire (esattamente quanto un quotidiano), ma a forza di giocare s'era diventati dei veri professionisti. Di uno dei due flipper in particolare, si conoscevano ormai tutti segreti più intimi. Eravamo in grado di carezzare le due manopole e spingere ritmicamente, ma con forza controllata fino ad arrivare al limite estremo del tilt, riuscendo a fermarci appena un attimo prima dell’acme. I punti fioccavano, fra luci lampeggianti e suoni scampanellanti, fruttando bonus in palle aggiuntive. Ormai si era capaci di far durare una partita a piacere e i record di punteggio venivano costantemente migliorati raggiungendo cifre iperboliche. A un certo punto ci si stufava e si lasciava il gioco in tronco, cedendo generosamente le manopole a qualche ammirato spettatore.
Nelle tre stanze sul retro del bar si giocava con le carte toscane a filotto o a tressette col morto. Al massimo si faceva un’ordinazione di una spuma bionda o al bitter, giusto per dare un contentino al barista e per propiziarci qualche pantagruelico rutto. Si fumava quasi tutti e l’atmosfera era da porto delle nebbie.
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Intorno al 1966 un pomeriggio di Cineforum al cinema Verdi.
Davano un film americano di fantapolitica, non ricordo se "A prova di errore", "Tempesta su Washington" o "Comma 22". Alla fine del film sarebbe seguito il temuto "dibattito" condotto da don Gargini.
Alla fine del primo tempo, mi portai dall'altra parte della sala, dove si era sistemato Maurice, che in quelle occasioni amava distinguersi dal gruppetto della classe, invero assai cialtronesco e casinista, e atteggiarsi a persona matura e baccagliatrice. Chinandomi da dietro, per dirgli all'orecchio non so quale bischerata, posai sotto la sua poltroncina tre fialette puzzolenti di vetro che avevo acquistato la mattina. Credo si trattasse di acido solfidrico. Mi trattenni dietro di lui cazzeggiando del più e del meno, fino a quando le luci si abbassarono per il secondo tempo. A quel punto, con noncuranza. allungai il piede e schiacciai le tre fialette, quindi rapidamente tornai al mio posto.

Sullo schermo era appena apparso Henry Fonda in una scena madre con Walter Matthau, quando una scena ben più drammatica iniziò a svolgersi dall'altra parte della sala.
Tutt'intorno a Maurice iniziò prima un mormorio, poi un'agitazione crecente, quindi un fuggi-fuggi generale di gente paonazza. Solo lui, stoicamente impassibile, restò immobile al suo posto, dimostrando a tutta la platea, ammirata, di quale tempra fosse fatto.
In seguito, essendo egli un individuo assai astuto, fu assalito da fortissimi sospetti sull' autore della performance, ma, fortunatamente, non entrò mai in possesso di prove certe.
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Ci si ritrovava il sabato alle tre alla San Vincenzo de Paoli in San Domenico con l'insegnante di religione,  padre Montanari che era il nostro coordinatore, a fare una breve relazione sull’attività settimanale di ciascuna coppia. Io facevo il paio con Patrizio e la nostra assistita era una vecchietta del quartiere di Porta san Marco: la Filippini.
Dopo la mezz’oretta del rapporto, ci si disperdeva per città in bicicletta per andare a trovare i nostri protetti. Patrizio e io si andava al Supermercato dell’Esselunga, luogo allora di stupefacente modernità, e si faceva la spesa fino ad esaurire la modesta somma stanziata ogni settimana. Si comprava la pasta, lo zucchero, un barattolo di pomodoro, fagioli e poco altro. Poi ci si incamminava.
In via Buonfanti si entrava nel portone di una vecchia casa scalcinata e si salivano gli scalini neri e lucidi di una stretta e ripida scala. Ricordo ancora perfettamente l’odore penetrante di lezzo che usciva dagli scalini e dai muri ricoperti dall’unto dei secoli.
Si entrava dalla Filippini, una vecchina raggrinzita e prosciugata, sul metro e quaranta di altezza. Dopo aver posato la roba sul tavolo della cosiddetta cucina ed essersi ritualmente scherniti di fronte ai suoi ringraziamenti, ci si accomodava tutti nella camera da letto, unica stanza esistente oltre alla cucina ed al cesso, su tre seggioluccie pericolanti.
A quel punto c’era il problema di come riempire il quarto d’ora che ci sentivamo in dovere di trattenerci. La Filippini infatti non è che avesse molti interessi. Era sola da tanti anni: morto il marito, morto l’unico figliolo, passava le giornate a pregare e a sentire la radio senza capire quasi nulla di quello che vi si diceva. A qualsiasi domanda rispondeva a monosillabi e la conversazione tendeva inevitabilmente a spegnersi. In quei momenti dentro di me ringraziavo Patrizio che, nonostante tutto riusciva a parlarle del più e del meno, suscitando un minimo di interesse in quella persona così assente. Io cercavo di collaborare, ma ero di poco aiuto.
Alla fine, dopo esserci trattenuti per un tempo dignitoso, ci si congedava e si usciva, rattristati da quella vita tanto vuota, e senza speranze, ma anche sollevati di poter tornare a respirare liberamente nel nostro mondo che in quel momento ci appariva così rassicurante e pieno di promesse.
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(Ciccio, Dom, ogni tanto Astucci e PPE). Qualche domenica pomeriggio, ai concerti al Teatro Comunale di Firenze (non dico un Abbado, ma almeno un Muti ... un Delogu...), nella Innocenti IM3 superribassata del tenero prof d'Italiano Starnini, in una nuvola densissima di fumo di sigaretta, in amena compagnia del prof. di matematica, lo stralunato Giovannino Ieri o della stagionata ipermiope Giulietta che facendo ginocchino impediva all'imbarazzato guidatore di innestare la marcia indietro. Auto in panne sull'autostrada, che ripartiva grazie a misteriosissimi calcetti bene assestati sulla marmitta o giù ci lì.
Pio X - 18 aprile 1969...
In quegli anni al Metastasio, alla Pergola, alla Sala Bianca, ma più che altro al Teatro Comunale, oltre ai giovani Metha, Pollini, Abbado, Giulini, Muti, Maazel, si poterono vedere per le ultime volte anche Backhaus, Karajan, Rubinstein, Oistrakh e Bernstein.
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Circolo Pio X
Qualche domenica sera dopo cena, magari appena reduci dall'Abetone, dopo tredici ore di sci e di autobus, ci restava il coraggio di andare al Pio X a farsi il torneo di bridge oppure, ogni 15 giorni, al concerto di don Mario Lapini, a farsi cullare semiaddormentati dal Quartetto Italiano (Paolo Borciani, Elisa Pegreffi, Piero Farulli e Franco Rossi) o dall' immancabile minipianista polacco Mieczysław Horszowski (morto venticinque anni dopo, a 101 anni, nel 1993). Mentre Don Mario indaraffatissimo preparava il registratore segreto nascosto fra i tendaggi rossi dietro il palco, noi si approfittava dell'intervallo per farsi una veloce partita a boccette nella sala accanto al bar.

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